Architetture in Acciaio n° 33
La rivista italiana dell’architettura e delle costruzioni in acciaio
In questo numero
La Ricerca della Bellezza quale Strumento di Verità
Arcadia Center, illustrato in questo numero di Architetture in Acciaio, è un progetto che nasce dopo oltre vent’anni di professione, un periodo di lavoro intenso che non può prescindere da come tutto sia iniziato. Mi riferisco all’essere stato, seppur per un breve periodo, in occasione della mia permanenza negli Stati Uniti, allievo di Paolo Soleri, a sua volta allievo di Frank L. Wright. Progettisti per i quali il mestiere dell’architetto non era il mero rincorrersi di forme, geometrie eleganti o il rispetto delle normative. Fare l’architetto nasceva da una profonda riflessione sulla società e sull’umanità in generale. Se c’è un privilegio ed una responsabilità nella professione di architetto è che il nostro lavoro influenza profondamente non solo l’ambiente in cui operiamo ma anche la mente di chi vive o comunque interagisce con le nostre realizzazioni.
Da sempre l’architettura è anche espressione della cultura e dei valori del tempo in cui si inserisce, quale strumento del pensiero politico e sociale che la produce. Questo avviene in modo palese nella macro-scala urbana, nel caso vi sia una formulazione o un’ideologia prestabilita all’origine. Ne sono un esempio le architetture dei regimi dittatoriali per arrivare alle formulazioni delle società utopiche con le loro “città ideali”. Lo stesso Soleri, che sopra ho menzionato, lo ha fatto con Arcosanti nel deserto dell’Arizona. Nella micro-scala ne sono un esempio l’organizzazione del posto di lavoro, gli uffici piuttosto che le abitazioni, argomenti caldi del momento.
L’organizzazione dello spazio e le gerarchie che ne derivano sono concetti reversibili e comuni al genere umano quanto al mondo animale. Pensiamo ad esempio all’organizzazione di un alveare o di un termitaio che sono dei modelli organizzativi ma anche di efficienza energetica e di sostenibilità, per usare un termine ultimamente molto alla moda.
La società occidentale attuale, ed il modello consumistico che l’ha generata, rendono sempre più difficile orientarsi nel mondo, capire noi stessi e dove vogliamo arrivare o addirittura cosa sentiamo, storditi come siamo dal “frullatore sociale” in cui siamo finiti, bombardati dalle informazioni flash dei social e rapiti dai nostri cellulari in una sorta di realtà virtuale.
In questo scenario, che ritengo più reale che apocalittico, vi è la necessità di trovare dei capisaldi valoriali che ci guidino nella vita e nella professione, qualcosa insomma di solido e di vero a cui ancorarsi e da cui partire. Vi è la necessità di una riflessione, di fermarci e guardarci. In questo senso, la ricerca della bellezza quale strumento di verità è il fil rouge della mia attività di architetto ma ancor prima di essere umano.
Mi riferisco ad una bellezza innegabile, istintiva e istintuale che si genera nel rapporto che abbiamo con gli elementi naturali e che si manifesta prima dei condizionamenti culturali. La natura è qualcosa che riconosciamo a priori come bello. Non serve la razionalità per emozionarsi davanti ad un mare in tempesta o per sentire che il fuoco brucia. La bellezza, intesa come “verità” è lo strumento per arginare l’omologazione del pensiero. Attraverso i nostri sensi e le nostre percezioni ci liberiamo dai condizionamenti. In questo sta il significato profondo del mio lavoro, il cui obiettivo oggi è costruire spazi “belli” dove vivere e soprattutto sentirsi liberi. Architetture vere, non “Edifici iPhone”, che durino solo una stagione per assecondare e richieste del mercato.
L’architettura di cui parlo non deve essere un fatto privato di chi ne usufruisca ma “un dono” alla comunità, al quartiere, alla città, utilizzando gli elementi della natura come strumento per realizzare un luogo dove “star bene”. Creare edifici che generino un senso di appartenenza sia per chi li vive dall’interno, sia per chi li percepisce come elemento del paesaggio urbano, come potrebbe avvenire con una collina, una roccia, un torrente in un paesaggio naturale. Un elemento riconoscibile che caratterizza un luogo e la sua storia e delle vite che vi sono transitate.
L’architettura deve riprendersi quella funzione sociale che le compete. Costruire una città non è un semplice gioco formale, non è la realizzazione di semplici funzioni e chi opera in questo settore ha un ruolo fondamentale. Se è vero che lo spazio è generato dal pensiero è altrettanto vero il contrario. Abbiamo uno strumento incredibilmente potente a nostra disposizione. Non stiamo parlando della sagoma di un tetto o della forma delle finestre ma dell’essenza stessa dell’intera nostra società.
Arcadia Center, oggetto di questa pubblicazione, nel suo piccolo, realizza molti di questi obbiettivi, seppure con tutti i limiti imposti dal rispetto del budget e delle funzioni insediatevi. Un progetto che nasce avendo come obiettivo quello di sintetizzare in modo armonico esigenze che sembrano antitetiche e che, simbolicamente, sono rappresentate dai colori e dalle geometrie dell’edifico. Il bianco ed il nero, i volumi morbidi e quelli spigolosi. Il nuovo e il vecchio edificio. Arcadia Center nasce dalla storia di un luogo rispetto al quale si propone come volano di rigenerazione urbana e sociale.
Giuseppe Tortato, Architetto
La Ricerca della Bellezza quale Strumento di Verità
Arcadia Center, illustrato in questo numero di Architetture in Acciaio, è un progetto che nasce dopo oltre vent’anni di professione, un periodo di lavoro intenso che non può prescindere da come tutto sia iniziato. Mi riferisco all’essere stato, seppur per un breve periodo, in occasione della mia permanenza negli Stati Uniti, allievo di Paolo Soleri, a sua volta allievo di Frank L. Wright. Progettisti per i quali il mestiere dell’architetto non era il mero rincorrersi di forme, geometrie eleganti o il rispetto delle normative. Fare l’architetto nasceva da una profonda riflessione sulla società e sull’umanità in generale. Se c’è un privilegio ed una responsabilità nella professione di architetto è che il nostro lavoro influenza profondamente non solo l’ambiente in cui operiamo ma anche la mente di chi vive o comunque interagisce con le nostre realizzazioni.
Da sempre l’architettura è anche espressione della cultura e dei valori del tempo in cui si inserisce, quale strumento del pensiero politico e sociale che la produce. Questo avviene in modo palese nella macro-scala urbana, nel caso vi sia una formulazione o un’ideologia prestabilita all’origine. Ne sono un esempio le architetture dei regimi dittatoriali per arrivare alle formulazioni delle società utopiche con le loro “città ideali”. Lo stesso Soleri, che sopra ho menzionato, lo ha fatto con Arcosanti nel deserto dell’Arizona. Nella micro-scala ne sono un esempio l’organizzazione del posto di lavoro, gli uffici piuttosto che le abitazioni, argomenti caldi del momento.
L’organizzazione dello spazio e le gerarchie che ne derivano sono concetti reversibili e comuni al genere umano quanto al mondo animale. Pensiamo ad esempio all’organizzazione di un alveare o di un termitaio che sono dei modelli organizzativi ma anche di efficienza energetica e di sostenibilità, per usare un termine ultimamente molto alla moda.
La società occidentale attuale, ed il modello consumistico che l’ha generata, rendono sempre più difficile orientarsi nel mondo, capire noi stessi e dove vogliamo arrivare o addirittura cosa sentiamo, storditi come siamo dal “frullatore sociale” in cui siamo finiti, bombardati dalle informazioni flash dei social e rapiti dai nostri cellulari in una sorta di realtà virtuale.
In questo scenario, che ritengo più reale che apocalittico, vi è la necessità di trovare dei capisaldi valoriali che ci guidino nella vita e nella professione, qualcosa insomma di solido e di vero a cui ancorarsi e da cui partire. Vi è la necessità di una riflessione, di fermarci e guardarci. In questo senso, la ricerca della bellezza quale strumento di verità è il fil rouge della mia attività di architetto ma ancor prima di essere umano.
Mi riferisco ad una bellezza innegabile, istintiva e istintuale che si genera nel rapporto che abbiamo con gli elementi naturali e che si manifesta prima dei condizionamenti culturali. La natura è qualcosa che riconosciamo a priori come bello. Non serve la razionalità per emozionarsi davanti ad un mare in tempesta o per sentire che il fuoco brucia. La bellezza, intesa come “verità” è lo strumento per arginare l’omologazione del pensiero. Attraverso i nostri sensi e le nostre percezioni ci liberiamo dai condizionamenti. In questo sta il significato profondo del mio lavoro, il cui obiettivo oggi è costruire spazi “belli” dove vivere e soprattutto sentirsi liberi. Architetture vere, non “Edifici iPhone”, che durino solo una stagione per assecondare e richieste del mercato.
L’architettura di cui parlo non deve essere un fatto privato di chi ne usufruisca ma “un dono” alla comunità, al quartiere, alla città, utilizzando gli elementi della natura come strumento per realizzare un luogo dove “star bene”. Creare edifici che generino un senso di appartenenza sia per chi li vive dall’interno, sia per chi li percepisce come elemento del paesaggio urbano, come potrebbe avvenire con una collina, una roccia, un torrente in un paesaggio naturale. Un elemento riconoscibile che caratterizza un luogo e la sua storia e delle vite che vi sono transitate.
L’architettura deve riprendersi quella funzione sociale che le compete. Costruire una città non è un semplice gioco formale, non è la realizzazione di semplici funzioni e chi opera in questo settore ha un ruolo fondamentale. Se è vero che lo spazio è generato dal pensiero è altrettanto vero il contrario. Abbiamo uno strumento incredibilmente potente a nostra disposizione. Non stiamo parlando della sagoma di un tetto o della forma delle finestre ma dell’essenza stessa dell’intera nostra società.
Arcadia Center, oggetto di questa pubblicazione, nel suo piccolo, realizza molti di questi obbiettivi, seppure con tutti i limiti imposti dal rispetto del budget e delle funzioni insediatevi. Un progetto che nasce avendo come obiettivo quello di sintetizzare in modo armonico esigenze che sembrano antitetiche e che, simbolicamente, sono rappresentate dai colori e dalle geometrie dell’edifico. Il bianco ed il nero, i volumi morbidi e quelli spigolosi. Il nuovo e il vecchio edificio. Arcadia Center nasce dalla storia di un luogo rispetto al quale si propone come volano di rigenerazione urbana e sociale.
Giuseppe Tortato, Architetto
Arcadia Center, illustrato in questo numero di Architetture in Acciaio, è un progetto che nasce dopo oltre vent’anni di professione, un periodo di lavoro intenso che non può prescindere da come tutto sia iniziato. Mi riferisco all’essere stato, seppur per un breve periodo, in occasione della mia permanenza negli Stati Uniti, allievo di Paolo Soleri, a sua volta allievo di Frank L. Wright. Progettisti per i quali il mestiere dell’architetto non era il mero rincorrersi di forme, geometrie eleganti o il rispetto delle normative. Fare l’architetto nasceva da una profonda riflessione sulla società e sull’umanità in generale. Se c’è un privilegio ed una responsabilità nella professione di architetto è che il nostro lavoro influenza profondamente non solo l’ambiente in cui operiamo ma anche la mente di chi vive o comunque interagisce con le nostre realizzazioni.
Da sempre l’architettura è anche espressione della cultura e dei valori del tempo in cui si inserisce, quale strumento del pensiero politico e sociale che la produce. Questo avviene in modo palese nella macro-scala urbana, nel caso vi sia una formulazione o un’ideologia prestabilita all’origine. Ne sono un esempio le architetture dei regimi dittatoriali per arrivare alle formulazioni delle società utopiche con le loro “città ideali”. Lo stesso Soleri, che sopra ho menzionato, lo ha fatto con Arcosanti nel deserto dell’Arizona. Nella micro-scala ne sono un esempio l’organizzazione del posto di lavoro, gli uffici piuttosto che le abitazioni, argomenti caldi del momento.
L’organizzazione dello spazio e le gerarchie che ne derivano sono concetti reversibili e comuni al genere umano quanto al mondo animale. Pensiamo ad esempio all’organizzazione di un alveare o di un termitaio che sono dei modelli organizzativi ma anche di efficienza energetica e di sostenibilità, per usare un termine ultimamente molto alla moda.
La società occidentale attuale, ed il modello consumistico che l’ha generata, rendono sempre più difficile orientarsi nel mondo, capire noi stessi e dove vogliamo arrivare o addirittura cosa sentiamo, storditi come siamo dal “frullatore sociale” in cui siamo finiti, bombardati dalle informazioni flash dei social e rapiti dai nostri cellulari in una sorta di realtà virtuale.
In questo scenario, che ritengo più reale che apocalittico, vi è la necessità di trovare dei capisaldi valoriali che ci guidino nella vita e nella professione, qualcosa insomma di solido e di vero a cui ancorarsi e da cui partire. Vi è la necessità di una riflessione, di fermarci e guardarci. In questo senso, la ricerca della bellezza quale strumento di verità è il fil rouge della mia attività di architetto ma ancor prima di essere umano.
Mi riferisco ad una bellezza innegabile, istintiva e istintuale che si genera nel rapporto che abbiamo con gli elementi naturali e che si manifesta prima dei condizionamenti culturali. La natura è qualcosa che riconosciamo a priori come bello. Non serve la razionalità per emozionarsi davanti ad un mare in tempesta o per sentire che il fuoco brucia. La bellezza, intesa come “verità” è lo strumento per arginare l’omologazione del pensiero. Attraverso i nostri sensi e le nostre percezioni ci liberiamo dai condizionamenti. In questo sta il significato profondo del mio lavoro, il cui obiettivo oggi è costruire spazi “belli” dove vivere e soprattutto sentirsi liberi. Architetture vere, non “Edifici iPhone”, che durino solo una stagione per assecondare e richieste del mercato.
L’architettura di cui parlo non deve essere un fatto privato di chi ne usufruisca ma “un dono” alla comunità, al quartiere, alla città, utilizzando gli elementi della natura come strumento per realizzare un luogo dove “star bene”. Creare edifici che generino un senso di appartenenza sia per chi li vive dall’interno, sia per chi li percepisce come elemento del paesaggio urbano, come potrebbe avvenire con una collina, una roccia, un torrente in un paesaggio naturale. Un elemento riconoscibile che caratterizza un luogo e la sua storia e delle vite che vi sono transitate.
L’architettura deve riprendersi quella funzione sociale che le compete. Costruire una città non è un semplice gioco formale, non è la realizzazione di semplici funzioni e chi opera in questo settore ha un ruolo fondamentale. Se è vero che lo spazio è generato dal pensiero è altrettanto vero il contrario. Abbiamo uno strumento incredibilmente potente a nostra disposizione. Non stiamo parlando della sagoma di un tetto o della forma delle finestre ma dell’essenza stessa dell’intera nostra società.
Arcadia Center, oggetto di questa pubblicazione, nel suo piccolo, realizza molti di questi obbiettivi, seppure con tutti i limiti imposti dal rispetto del budget e delle funzioni insediatevi. Un progetto che nasce avendo come obiettivo quello di sintetizzare in modo armonico esigenze che sembrano antitetiche e che, simbolicamente, sono rappresentate dai colori e dalle geometrie dell’edifico. Il bianco ed il nero, i volumi morbidi e quelli spigolosi. Il nuovo e il vecchio edificio. Arcadia Center nasce dalla storia di un luogo rispetto al quale si propone come volano di rigenerazione urbana e sociale.
Giuseppe Tortato, Architetto